martedì, marzo 31

scheggiata dal dolore

Qualcosa si incaglia tra i ventricoli, quando perdi un amico. Il cuore perde un colpo, poi cerca senza successo un recupero veloce. E nella corsa sembra di avvertire qualche goccia di sudore, tra gli occhi... salata, come fosse una lacrima.
Nel lasciarla scivolare mi si compone innanzi come una lente, e vi perdo le certezze delle strade percorse assieme,tentenno, smarrisco la direzione. E m'arresto in silenzio. Dubitando sul modo di muovere, anelando al ritmo noto del passo doppio. Tic, tac, tic, tac... facevano così, i passi per strada. Scandivano il tempo fra gli scorci e i gradini inventati; restavano appesi ai rami, nel quando ci siamo aspettati, quando uno aveva voglia di correre, e l'altro restava dietro senza fiato.
Quando uno reggeva per mano un compagno, e l'altro portava in borsa la sua solitudine.
Quando uno sbagliava la pagina, e l'altro ritrovava il segno.

La vita è anche fatta di questo perdersi nel vivere; incipriarsi il naso e stamparsi un sorriso in faccia, e aprire le braccia lo stesso, ma per tutti quei dispersi che occorre curare, per quelle strane farinose signore mai magre, che mangiano niente e sfornano dolci e lasagne di cui giurano non toccare che una briciola.
Inspiro, e mi scopro un po' il cuore, tentando di accoglierli nel breve piccolo spazio che il tempo disegna tra le mie mani e la loro necessità. Poi vanno, con educato sconforto, e mi lasciano una torta sul tavolo; nessun graffio alla mano che tendo per salutare, col passo che odora solo un poco più di fretta di quello dell'amico, che ha girato l'angolo.

Va bene, le storie hanno tutte un finale.
E certe amicizie, quelle che sono l'oggetto inutile che non butteresti mai; vere perché prive di uno scopo; fatte di condivisione e guardare avanti assieme, e a volte negli occhi battendosi un abbraccio fra i dolori e le gioie; certe amicizie alla fine perdono di senso.
Perdono un senso, che è quello che ci conduce a tenere duro, e a tenerci insieme i pezzi.
Le riponi in un cassetto e ti proponi di non cercarle più. Di lasciare che la polvere ne impregni la faccia e renda il ricordo grigio e irriconoscibile.

Ne resto tagliata in due. Perché ogni volta che il cuore si rompe, trattandosi sempre di amore anche se con un vestito incruento e privo di desiderio fisico, si rompe a metà.
E l'altro pezzo, quello che contiene l'intero, è la parte che non mi appartiene.

domenica, marzo 29

Le linee della vita

specchi
Parrucchiere, sabato.
Quando cambia la stagione siamo propensi a cambiare look, a rinnovare il guardaroba, a pulire le mensole magari eliminando qualcosa di superfluo; così seguendo l'istinto, memoria di qualche processo alchemico naturale di cui siamo a malapena coscienti, sabato mattina vado dal parrucchiere. Instabile come sono a volte avevo pensato di 'tradire' il solito, ed andare altrove, ma in fondo mi sono detta, lui mi conosce, e se voglio far presto e bene bisogna che ceda, e ancora questa volta mi faccia servire alla solita bottega.
Quella che quando ti vedono sono sorrisi e "come stai", solo che stavolta colgo il tono di quello che lo chiede perché tu gli chieda. Infatti, quando domando, mi racconta che s'è operato al cuore, e che è da poco tornato al lavoro.
Ecco, saper ascoltare, a volte, scopriamo delle storie che altrimenti ci saremmo persi. Perché no, mi dico. Lo ascolto. E ascolto l'ambiente intorno; per la prima volta lo vedo temporeggiare e parlare con una cliente anziana da seduto invece che in piedi, dallo specchio, mentre le sistema i capelli. Faccia a faccia. Che strano.
I parrucchieri sono della razza dei fisioterapisti. Gli parli sempre guardando altrove. I maghi osteopati parlano con la tua spalla, mentre l voce si rivolge ai tuoi orecchi.
I fisioterapisti ti chiedono del più e del meno, per sottrarre informazioni che servono magari alla terapia, mentre sei disteso ad occhi chiusi e allinei il tuo corpo per allineare la salute col momento attuale.
I parrucchieri parlano col tuo riflesso, perché la loro opera, per chi la subisca, alla fine vive nello specchio.

Oggi mi sono occupata del mio parrucchiere. E ho ascoltato una volta tanto qualcosa che valesse la pena, e non le solite chiacchiere insipide sul gossip. Non che a volte non ci siamo fatti qualche chiacchiera più seria sui colori e sull'apprendimento. Ma oggi la conversazione era per lui. Era lui. Era quella paura sottile che trapela dopo una operazione, perché nella sbruffonaggine del "ho un cuore da mezzofondista", resta l'insicurezza dell'aver avuto letteralmente il cuore tagliato in due, con qualcuno che ti sviscera le valvole e ti ricompone i sentimenti con un pezzo do goretex.
Si, quello con cui fanno scarpe e giacconi.
Beh, dirà qualcuno edotto nei balzi della tecnologia, meglio di avere dentro un pezzo di maiale. Con tutto il rispetto per il maiale, ovviamente.

Sotto le mani che tagliavano le linee superflue dei miei capelli, come un sarto ho visto Dio che ricuciva la vita nella camera operatoria.
Sciocchezze dell'esistenza, novità di primavera; le linee della vita si sono intrecciate e disciolte all'uscita del salone, presto dimentiche di quei capelli che giacciono sul pavimento, che sono tutto ciò che anelo dimenticare.

Casa, domenica.
Le piccole, vecchie emozioni perdute dal parrucchiere hanno uno strascico nella preparazione alla Pasqua. Ciascuno la viva come vuole, come festa cristiana o come rinnovamento della natura, comunque il periodo si fa caldo, e adatto a lavare tende e cuscini, 'ché s'asciugano in fretta.
Caldo e adatto a rimestare tra gli oggetti stipati nei cassetti e negli sportelli della cucina.
Il vento di scirocco s'è intrufolato dalla finestra aperta, ed ha portato dentro rumoreggiando tra i fogli, un po' del calore che manca alla casa; è scivolato poi fuori dalla stanza da letto, come un ladro gentile, soccorrendo la stanchezza con una spazzata poco accurata, magari, ma sufficiente a introdurre aria nuova.
Un desiderio di gioia, un impulso a vivere, un sorriso che aleggia.
Oggi, come ieri, lascio che la vita compia una curva originale. Nel nettare, ordinare, cambiare l'esterno, inviandomi l'immagine per una più profonda mutazione.

Un parlarsi allo specchio, che è lucido scudo di guerriero.

domenica, marzo 22

... a Trastevere

Trastevere: cuore, anzi 'core' della Roma vecchia.
Quell'angolo caratteristico, dove da un paio di sabati bazzico invertendo la tendenza allo shopping, che ci vuole nei centri commerciali, e fuggendo a bella posta il sole, che qui non arriva quasi mai.
Rimandato il 'fuori porta' alla domenica, mento a me stessa impegnandomi in una passeggiata tra i vicoli, per tenere in allenamento il cuore con un po' di esercizio aerobico. Metafore o no, la cosa funziona, e per un po' smetto di cercare compenso alle carenze affettive scrutando nei negozi. Tuttavia mi occorre un burrocacao, e lo acquisto, e si sa, '"l'appetito vien mangiando". O forse sono inevitabilmente soggiogata dal fascino del luogo, che resiste nonostante la poderosa mole di vetture che si vedono in giro. Così m'avvicino ad una botteguccia dall'aria originale...
Sospinta dal demone dello shopping dopo la rituale lieve attesa, che aumenta il compimento del piacere, di fronte alla vetrina, entro.
Avvolta, come in una sciarpa calda, dall'idea che le borse colorate in esposizione siano qualche merce sfuggita al commercio globalizzato (si osserva uno spirito originale ed estroso, nel loro guarnirsi con bottoni e fiori), e che magari potrei averne una da sfoggiare nelle serate particolari, sentendomi allegra e variopinta. Mi lascio sedurre dalle profferte di eccezionalità della proprietaria, scopro un fianco alle sue parole, mentre l'altra parte è messa in allarme dallo scivolare di un nome che s'infila tra le mani della signora e la borsa...
"Sa, sono di XXX, che a dire il vero è partito proprio dalle borse, anche se ora fa anche altro (...) vede si modifica così" [clac clac, la borsa piatta diventa 'a cestello'] "e poi ancora così" [clac clac la borsa 'a cestello' diventa bauletto] "...".
Fantastico. Sento che sarò davvero bella con questa borsa. Tutti mi faranno i complimenti, mi chiederanno dove l'ho trovata, ed io risponderò 'sai, in un negozietto vintage a Trastevere'... Unico ostacolo all'estrazione del bancomat è quella parte attenta di me che è in preallarme... 'sto XXX io non lo conosco, però la signora sembra pensare che dovrei, dato che la mia giacchetta è decisamente firmata, anche se decisamente presa a saldo. Ma Lei no lo sa; e mentre io mi scontro con me stessa e traffico con la borsa aprendola e soffermandomi, per prudenza e con consolazione sul burro cacao, mi mostra un altro modello...
Colgo la palla al balzo e ne indico una a caso sullo scaffale; in un sussurro, ben sapendo di perdere punti la parte attenta domanda il prezzo.
Basti, che dopo pochi secondi ero fuori, senza borsa (quella del negozio), e con una mano ancora ben stretta sul mio primo acquisto: il burro cacao.

Sarà stato un caso, mi dico. In fondo qui bazzicano turisti danarosi (scoprirò poi a casa chi sia XXX), e forse i pariolini quando decidono di scendere dalla zona collinare, quindi qualche negozio del genere serve ed è ben accetto... Proseguo nel giro, ma ormai la sfida è palese (e cosciente). Troverò qualcosa di trendy ed economico. Sarà mica come a S.Lorenzo, dove ormai i negozi partono da capi del valore di 80 euro, per giungere a vette non scalabili in tempi normali, figuriamoci con la crisi!
Detto fatto; si profila la vetrina di un negozio acquattato nel vicolo dove c'è il localino in cui, ricordo, ho mangiato bene e a poco prezzo. Sembra la bottega d'un rigattiere, ed i capi esposti sono veramente graziosi. C'è quel disordine che oblitera i sensi speciali (tipo il quinto senso e mezzo d'un noto indagatore), ma non la parte attenta: Quella delle due che cerca subito con la mano il burrocacao.
Sollevo l'altra, 'sfoglio' i capi appesi e pesco una magliettina semitrasparente, senza maniche,, scollata... l'ideale per il campeggio o le passeggiate sulla riviera trapanese, quando andrò ad Aprile dalla Velaia...
Bella, davvero. E il colore è perfetto. Senza staccarmi dal burrocacao (ormai squagliato, anche se nuovo) arranco sul cartellino per risolvere in solitario l'enigma del prezzo...
"70,00" dice il cartellino.
"!!!", dico io. Nemmeno fosse se fosse oro il peso della stoffa giustificherebbe il prezzo.
Inspirando, scivolo fuori dal negozio; l'espirazione s'arresta su una ventata allegra e gelida di tramontana, in un sorriso al burro cacao.

sabato, marzo 21

A Lila non piace....

... alzare il volume della tv, per cercare di non sentire un pensiero.

i primi tre minuti


Questa mattina, in piena intuizione feng shui, o forse in preda a psicosi (c'è gente che sposta i mobili ogni giorno, per questo!!) decido di inserire una variante nella sequenza di ginnastica.
Mi cimento, quindi, nella posizione del loto Kundalini (qui trovate una immagine simile): afferro la punta degli alluci e mi produco in una prima esperienza...
Scopro che si può fare, di nuovo (mesi fa non era un problema che mi sarei posta) per quello che riguarda la lunghezza muscolare; mi scolpisco nella posizione, inizio a respirare, cerco il punto di equilibrio.
Mentre il pensiero vaga sulle analogie con la vita, rotolo all'indietro, forse sbilanciata dal moto immaginario.
Respiro. Riprendo. Non basta, ancora.
Inizio a flettere ed estendere le gambe, e dopo le prime incertezze rammento che a volte, per vedere bene, è bene chiudere gli occhi.

Sospendo.
Attacco il timer.
Respiro. Riprendo.

Oscillo, alle prese con il problema di centrarsi, ma qui è stabilito un tempo di esistenza, e le cose vanno veloci. Uno, due, tre... Arriva la percezione dell'asimmetria del movimento. Ci entro.
Gamba a gamba, a ciascun allungamento si profila una leggera, diversa torsione; l'oscillazione temuta del baricentro; la schiena che s'incurva cercando di cedere parte della sua lunghezza agli arti; il piede sinistro si flette meno del destro. Ci entro.
Come se il corpo si vuotasse, lo guardo dentro, rotolo in fondo a quel piede. Successiva: ascolto il piede destro, sciolto, in perfetta posizione, caldo, disteso. Raggruppo le sensazioni, le immagino, le ?sono'. Le trasporto a sinistra, e qualcosa si modifica.
Resisto nell'attenzione calibrata.
La schiena si raddrizza infilata dal respiro, che s'è incastrato in un ritmo regolare. Segue: piegare, spiegare, comprendere, imparare... Ci entro... è finalmente, sul trillo del timere, tutto è giusto e perfetto.

Qualche giorno fa Frankie Palla citava Isaac Azimov (qui) e mi sono chiesta (non proprio con tranquillità!) cosa farei se mi dicessero che mancano solo tre, cinque, (sono ancora pochi)... facciamo dieci minuti; anche se in fondo la quantità del tempo non importa, se come capita quando fai una asana i primi tre minuti sono anche gli ultimi.
La risposta, oggi, è che farei attenzione, fino al trillo del timer.

giovedì, marzo 19

Un mondo di dipendenze


Non credo d'essere la sola.
Ti svegli al mattino pensando "...mmm si, oggi mi andrebbe proprio di mangiare...". Ecco, qui il pensiero si perde. Di mangiare cosa? Da qualche giorno sono a dieta (intesa come una alimentazione equilibrata e scevra da schifezze), e ho camuffato la colazione abbondante, magari completata di una pasta punjiabi, con yogurt, mela e marmellata, togliendo i quattro biscotti (di grandezze variabili dalla ciambella al frollino).
Tanto la colazione la rifaccio più tardi, come gli hobbit.
Tuttavia resta qualche anelito leggero, in cima alla lingua. Che sarà mai, non riesco a capirlo. Magari l'idea della dieta, mi dico; quando si è a dieta un pochino occorre soffrire queste mancanze, e prendere le distanze dalla ricerca di soddisfazione nel cibo... Sarà?!
I miei pazienti cercano amichevolmente di partecipare al progetto, ma forse non hanno ben capito come funziona (io sono magra, sto solo cercando di magiare meglio), sicché, avvisati della novità, collaborano con le seguenti iniziative: lunedì ho ricevuto un cappuccino e cornetto, martedì ravioli dolci al vapore bolliti ("molto più leggeri, e nella pasta ci metto poche uova" mi hanno detto come certificato di garanzia), mercoledì una scatola di cioccolatini.
Oggi niente, quindi mi dedico al programma alimentare previsto; almeno all'inizio. L'insoddisfazione però serpeggia sottile e ironica, e mi stimola ad un piccolo sgarro, dopo aver sbocconcellato una pera; mi concedo un cioccolatino (con conseguente bruciore in bocca, sono allergica) e poi un altro (mi piace soffrire). Ancora nessuna soddisfazione. Chissà, una bella insalata con i semi di zucca, magari una cucchiaiata di marmellata di fichi (tanto vale soddisfare fino in fondo lo spirito di ricerca)... ancora niente.
Ma quando mi infilo dal fruttivendolo per acquistare le cipolle finalmente li scopro: due bei finocchi grandi, maschi, bianchi, lisci... spandono il loro odore fresco e pungente con solerzia e me lo sento riempire la bocca, come se li avessi già addentati. Comincio a salivare come un cane pavloviano.
Poi ricordo. Sono mesi che la prima colazione (beh ho le mie stranezze, e non sono poche) consiste in un finocchio fresco, che lava il gusto del caffè quando questo ha ormai saturato l'emoglobina, sostituendosi al ferro (so' pure anemica). Non ha proprio la stessa valenza, mi dicono., ma che volete, preferisco ancora" 'na tazzulella 'e cafè" al ferro, per colazione. Ve la immaginate?
Comunque sono due giorni che non mangio finocchi, perché sennò mi tocca fare un altro mutuo, con i prezzi che hanno raggiunto!
Dipendenza numero 1.

Questa settimana comunque sono proprio decisa a rovinarmi la vita. Dato che sono a dieta e ieri come sempre ho fatto ginnastica (ore 5.30, minuto più o meno), il pomeriggio sono andata in bici, stretching dopo la bici, ecc. magari mi riposo; tanto più che sto inseguendo quel sapore vago e indeciso che mi aleggia nella bocca, per cercare di trovare il sapore che manca. E' un footing particolare, ma abbastanza faticoso: provo mentalmente un sapore dopo l'altro, ma senza alcun risultato. Salto dei biscotti, slalom tra il sapore amaro delle mandorle e quello dolce dei pinoli, sollevamento del barattolo di confettura per vedere cosa c'è dietro...sembra che basti.
Torno a letto, leggo, bevo il caffè, mi faccio un giro su internet... poi cedo. Non ci riesco. Piedi sul pavimento, caracollo fino alla finestra, un bel respiro... e inizio.
In silenzio, allineando il corpo con la scena del cielo che si rischiara, in un alba incerta di nuvole. In silenzio.
Dipendenza numero 2.

Si da il caso che a volte il telefono in 'ufficio' smetta di funzionare. Così mi trovo a non poter colmare immediatamente il vuoto lasciato da un paziente che finisce le terapie... Possibile, si, anche se raro. Insomma, esco in corridoio e intravedo di lontano una signora che aspettava di essere chiamata, la aggancio (è qui per la visita cardiologica), me la porto dentro... le fisso l'appuntamento. Solo che non può la prossima settimana, allora per quella dopo... e già mi viene un piccolo buco nella testa. E in quell'ora, cosa farò?
Dipendenza numero 3.

E così via.
Non troppo interessante, se si prendono così, una per una. Insomma, neppure pericolose, a parte la dipendenza dal lavoro. Ce ne sono altre, ovviamente, anche peggiori. La cosa che mi fa riflettere è il concetto di dipendenza in sé.
Il bisogno di riempire uno spazio con qualcosa. Un pensiero, un'azione, del cibo, un vizio, Dio.

Riempire uno spazio che non si colma, è il paradosso di Zenone, ovviamente. In fondo neppure la meditazione, intesa come azione può saturare quell'istante in cui a mente si trova dinnanzi a se stessa, e non sa dove guardare. Pietrificata, fissa faccia a faccia Medusa, con la (s)consolante risposta che per sconfiggere il demone, che è ella stessa, ci vuole uno scudo da eroe con su uno specchio.

E dipende da te.

domenica, marzo 15

La migliore amica


Bisogna ammetterlo. Sono una di quelle persone che sono rimaste deluse, offese, incantate, e non necessariamente in quest'ordine, dalle altre. Affascinate, innamorate, tradite.
Ho creduto, fino all'ultimo, ogni volta, che fosse la persona giusta; quella che rimane senza deluderti mai. Per sempre.
Per l'appunto, come un cuore di plastica con scritto ti amo, alla fine il tutto si è sempre sgonfiato; quando i primi innamoramenti passano mi sono trovata per anni con persone, attorno, che non potevi dire propriamente amici, e neppure semplici conoscenze.
Arrivi a questo punto, o una parte di te crede che le cose siano così, e non ti aspetti più niente. Quando va bene la prendi con gioia; quando non ti senti amato, compreso, rispettato...
hai iniziato a saperlo da tempo. Le persone sono così.
Le guardi un po' in cagnesco, poi ci fai una risata amara e salutare come uno sciroppo, e mantieni il vento in poppa a quel senso di solitudine che ci accompagna, alla fine per tutta la regata.
Probabilmente anche io sono così; nel viaggio incessante (che qualcuno può trovare banale, ma allora lo aspetto per via) per "trovare me stessa", ad ogni curva scopro un difetto. Un sasso sul sentiero, che mi fa inciampare; uno scorcio fantastico... ma contro sole, per cui non ne riesco a scorgere tutti i particolari, e resto lì a cantarmela, con qualche cosa di inappagato al margine del campo visivo.

Va bene, mi dico. E' parte della vita.
Quindi oggi mi trovo accucciata a riflettere e metabolizzare, dopo aver smaltito una buona parte di tossine nel primo giro in bici dell'anno, le ultime insoddisfazioni; sono in precario equilibrio su un vecchio tronco d'albero abbattuto di quattro metri, senza corteccia e tutto pieno di buchi , umido, nel lato che non espone mai al sole, e condivido il piano di seduta e le riflessioni cupe con un mio collega. Vorrei dire amico, ma lui è come me, per questo. C'è, e c'è stato tantissimo, quando ero debole e malata, ma ad un certo punto ci siamo smarriti nelle ore lavorative, nelle cene che saltano per indisposizione (fisica o psicologica), nel sole freddo dell'inverno pieno, quando non mi riesce proprio di inforcare biciblu e andare a prender freddo per strada.
Così siamo mezzo e mezzo. Più che conoscenti o colleghi, in realtà, e un po' meno che amici. Forse...

La giornata infatti, dopo quella cuoremiotriste di ieri, è di quelle in cui il sole fa capolino alterno e altero dietro le nuvole. Credi che pioverà, invece, passato uno degli ultimi archi dell'acquedotto, scopri che è davvero caldo, e ti rotoli infantilmente nella sua scia, infilando il sentiero più disconnesso, pur di restarci.
Metafora.
Si, perché in uno di questi acquerelli dipinti senza contorno netto, da giorno umido e silenzioso in cui emergono cadaveri nello stagno del pensiero, affioraimprovvisa la rassicurante mano di qualcuno che chissà perchè si dimentica, quando si attraversano i momenti grigi.

(ma tu guarda che ostinata, è la coscienza, a volersi deprimere)!

E ricordo le mani, e tutti i particolari che non vengono in fotografia; il profumo, la vertigine delle chiacchiere fino a notte fonda, lo squillo del telefono proprio quando ti dichiari così a terra da non voler sentire nessuno, scambiarsi i vestiti, e i libri e le sensazioni senza cui non sei mai...
Ricordo perché li ho, e li ho avuti.
Nelle due facce, o dieci, dell'unica cosa che conta davvero nella vita: l'amore, comunque si manifesti.
Unica faccia di centomila, ci posso riempire una altra vita per raccontarlo, ma non oggi, non qui.
Oggi, ancora, scrivo per infiggere le sue dita nella memoria. Per ascoltarne la voce che parla di lontano. Per rattoppare le sue ferite, quando ne sente bisogno.

Scrivo perché sono così fortunata e felice: la mia migliore amica sono due; hanno volti diversi, storie inconciliabili, un solo incontro fugace.
Scrivo perché la mia amica è il mio collega della bici, che è più che un collega e meno di un amico, e soprattutto è l'amico che mi abbraccia quando arrivo da lui per un caffè, e non so parlar d'altro che della tristezza che mi solca il cuore. Quello che è stato con me, biscottini e acqua e si è portato a casa tutte le mie cose, quella sera d'ospedale in cui mi si è spezzata la vita; ed è qui ora, che tutti i frammenti graffiano dispersi e con fare inelegante il pavimento. Perché c'è sempre quell'ultima scheggia di vetro, quando si frantumano i bicchieri infrangibili, che continua a venir fuori dopo anni...

E dopo anni in cui non sogno più cose irraggiungibili, ho le vele ingombre d'un vento solleticante e sicuro, che mi ha riportato, per tutto il tempo che possiamo avere, l'amica nel cuore.
Il sentimento d'amicizia, che scivola fuori dalle nuvole, ed è dolce come una violetta di zucchero.

Broadway


Il cinema di periferia è come un cinema di paese.
Innanzi alla porta, alle quindici, ci sono due anziani vestiti a festa, come se fosse domenica dopo la messa; lei ha una sciarpa rossa, tirata su per ripararsi dagli inganni della prima primavera, che qui, dove il sole riesce a non battere che pochi minuti verso le dieci del mattino, non riesce a farsi sentire.
L'inizio del film, primo spettacolo e poi fai ancora in tempo ad andare a far l'ultima spesa del sabato, è fissato alle 15e30; e naturalmente non essendoci qui gadget e intrattenimenti alternativi, come nei moderni multi sala che costellano Roma come una fascia di asteroidi, l'ingresso è possibile solo... all'orario d'inizio del film. Anzi, bisogna dire che se la prendono anche comoda. Proprio come se sapessero che qui fuori non ci sono alternative. La piccola coda, che si è formata alle 15e30, infatti, scalpita, ma non si assottiglia; serpeggia solo un vago scontento, per la disattesa aspettativa d'esser già seduti coi pop corn in mano, esattamente come al Warner. Il cinema 'grande', dove solo arrivare dalle casse alla sala ti fa sentire d'aver fatto praticamente una maratona. Appena ti siedi, quindi, ti bevi tutta la Coca Cola, assieme a quindici minuti di pubblicità.

Qui poi non c'è la prenotazione; certamente ha i suoi vantaggi, ma il più delle volte lascia insoddisfatti: non sei mai al posto giusto. Troppo avanti, troppo indietro... a volte piace anche fare a spinte per entrare nel buio della sala, come un parto invertito. Quando ti siedi nel cinema entri nel grembo dell'irrealtà, a sconfiggere il tempo che ti lesiona la pelle; il viso si distende, non c'è da pensare a niente. Si aprono le buste e l'aroma di patatine e pistacchi salati si spande sottile fra le file. Il fruscio delle bibite gassate stappate rende frizzante l'attesa...
La magia sta per cominciare.

Nel buio, scivolano dietro di me i ragazzini, che vengono a vedere, comandati dalle mamme a rientrare ad una certa ora, l'unico film compatibile con il momento di rincasare, e che gli sia concesso; l'altro è vietato ai minori di anni quattordici, e li ho sentiti discutere: ad uno mancano ancora due mesi ed è richiesto il documento. A tredici anni e dieci mesi ancora non ce l'hai, e se per caso esiste in genere non te lo porti. E poi, probabilmente, quelli del cinema li conoscono.
Perché qui dopotutto è proprio come un piccolo paese. E a tredici anni e dieci mesi non puoi raggiungere i luoghi anonimi dove si proiettano ventiquattro film, e il tizio della cassa nemmeno ti guarda.

Per l'inizio vero, quando la pellicola gira, occorre aspettare che si esaurisca la fila all'esterno, ovviamente.
Come quella volta, a Castiglioncello, in cui ero andata a vedere Casinò. Si fece presto, perché eravamo appena in cinque; e la pausa dell'intervallo durò il tempo calcolato e controllato che tutti gli spettatori si recassero in bagno e ritorno. La sala era immensa, ricordo, e le immagini si dilatavano infilandoti dentro la pellicola, perché le pareti attorno riuscivano davvero a scomparire, troppo lontane per la visione laterale dell'occhio; e sentivi il bisogno di riconoscere uno spazio calcolabile. Come quando ti mostrano dei pallini, e l'occhio automaticamente, cerca di formare delle figure.

A volte queste piccole cose vecchie mi mancano un po'. Davano un po' di magia alla vita.
Così le scarto, come se fossero le mie caramelle, mentre siedo ad attendere che New York si apra dinanzi ai miei occhi. Sono i pop corn nella mia busta, questi ricordi che si accalcano, e finiscono, come è giusto, appena in tempo per il film.

Lo spazio attorno sfuma; il rumore delle mascelle si mescola alla colonna sonora; il sipario si alza.
Siamo a Broadway.

venerdì, marzo 13

"Perfetto"



Dite che al mondo nessun’essere è perfetto?

D’accordo, voglio crederci, e prendermi un difetto.

Però che questa cosa sia fatta seriamente,

sia! uno debbo averne, ma uno solamente.

E, ponderando, io sceglierei Lussuria

Che l’atto d’accoppiarsi, e procreare?,

è il modo più esaltante che si trovi

per compiere un peccato capitale.


Va bene, mi piace, però sembra

vedendola ‘sì tanto da vicino,

che dall’avidità non si disgiunga,

così già sono due, sul mio cammino.

L’effimera ricerca del piacere,

Sia esso di spirito o carnale,

alla brama d’avere s’accompagna

poiché, chi va cercando possedere

di tante cose, tutte, mi par ovvio

che poi le voglia pure trattenere.


Così si fa anche avaro chi pretende

d’avere cibo, sesso e conoscenze,

mischiati come fosser cosa sola

come avarizia e lussuria…con la gola.

E poi, d’invidia sarà privo

un uomo così pieno, un falso vivo?

Ormai come possiamo ritenere

Che questi possa avere un po’ di tempo

per altro che non sia abitare

Un qualche difetto ogni momento?


L’ego, già pieno a tal maniera

vedutosi si grande e possidente

presumerà pur d’essere nel giusto,

d’orgoglio gonfiandosi sovente.

E credo di non sbagliare troppo

nel dire, raggiunto questo punto

che l’ira non possa più mancare

ad uno, che già s’è preso tutto.


La riterrà sua forza di difesa

scagliandosi su chi gli rechi offesa;

magari su quei, come chi scrive,

che trovano difficile pensare

che quando si riesca ad infilare

i difetti, come splendido monile,

come detti, ad uno ad uno, allor non manchi

la “virtù” di esser nati stanchi!

Poca assai sarà la voglia di cambiare

In chi, vedendosi siffatto

Si trovi già perfetto (o troppo brutto?)

Ed oblii che non tutto È ciò che appare.


Dunque la pigrizia, non da sola,

rimane da osservare poiché segue,

e quando non ultima permane,

li tira seco tutti, e li precede!


Ed eccoci osservando non mi sembra

Che solamente uno m’appartenga!

Al patto che pria si proponeva

m’accorgo ch’è impossibil tener fede;

ciascuno in me come ombra scorgo,

e l’animo incupisce, ma non cede

‘ché infondo più di tutti questi assieme

mi sembra sia l’assenza di qualcosa

un filo che traspare, ma non viene

e mancando nell’uomo gli impedisce

di essere perfetto come l’Uno

cui tende, ma di rado si riunisce.


O almeno non può coscientemente

fintanto che l’animo s’adombra

e si ripara dalla chiara luce

coi difetti facendosi una fronda.

Si svolge l’idea che ponevamo

c’è un filo, che slega e poi riunisce

che mi par più saggio da seguire:

la virtù, che i difetti riassopisce.

Ed è una che già tanto ho cantato,

poiché nell’espandersi nell’uomo

misericordia e giustizia ha in sè sommato

saggezza e forza, umiltà e perdono.


L’uomo parco di parole quando anela

Al silenzio dell’io, che grida sempre

L’ha chiamata in mille ed altri modi

Ma uno è il nome, che dice tutto e niente;

ed è quello che stento a pronunciare...

E sia, la virtù e il filo, sono Amare.

lunedì, marzo 9

Milano city



Ho visto Milano con gli occhi un po' stanchi.
Risvegliata dopo una notte di tosse, fastidiosa come una fila fantasma in autostrada. Nuda della sua essenza di città vera, in quanto vista con gli occhi del turista. Ma non è una città da turismo. Quello che c'è da vedere, bisognerebbe scoprirlo con gli occhi del cittadino che ritrova, sotto le grida di ricchezza di via Montenapoleone, una città vera. Tersa, dopo la pioggia. Bella nel suo sommarsi di stili ultramoderni e... vecchi.

Ho visto Milano con la pelle di una romana.
E Roma è una città antica. Antico il modo chiassoso di andare al mercato. Di accalcarsi davanti al banco e scegliere la roba più bella. " 'a signo', un kilo d'arance fa mille lire, tre chili so' du'mila"... e cose del genere.
A Milano si cammina ordinati ai lati del banco. Una fila unia si forma sul davanti e si sdoppia; proprio al centro. Quindi percorri il banco da un lato o dall'altro, e a metà del lato c'è un omino o una signora che ti serve. Le cose non le tocchi. Le guardi, al massimo.
Però, sotto sotto sono come a Roma.
Quando gli chiedo "mi da due peperoni", ne ha imbustati sette, prima che me ne accorga. Ma me ne accorgo prima di pagare: "no signora. Quando dico due sono due, non due chili!".

Ho visto Milano con gli occhi di Magritte.
E poi ho guardato a me stessa, con gli stessi occhi. E quello che mi piace, e quello che non mi piace, sono rimasti assieme sotto una identica luce. Che non nasconde le parti brutte, neppure quando se ne va. Che non illumina maggiormente le parti belle.

venerdì, marzo 6

Le fusa del gatto, in un giorno di pioggia...

A Lia piace, di tanto in tanto, fare una corsa a Milano
per prendersi una vacanza dalla tecnologia.
Ricordare senza immagini i dettagli di una vecchia storia;
attraversare con lo sguardo le finestre tra i rami, e scoprire un mondo di nuvole;
attraversare con lo sguardo un mondo di nuvole, e scoprire un mondo di finestre;
inseguire i riflessi delle finestre, e trovare un mondo di alberi fioriti.
Attraversare uno sguardo corrucciato e scoprire un sorriso.
Scontrarsi con la primavera che s'insinua tra le persiane,
e incontrare suo fratello bambino, in un raggio di memoria
restando a giocare per ore sul pavimento.

...

Augurare un felice fine settimana ai naviganti.

lunedì, marzo 2

La rosa




Magnifico fiore, attorniato

di spine acute e solerti

‘sì fitte che a stento ti muovi:

protetto è il segreto, dai rovi.

E’ là, alla vista di tutti,

ma pochi s’avviano a tentare

strisciando o volando, graffiandosi

la Via per poterlo toccare.

Insegna che vano è tacere,

chi ode di rado t’ascolta,

tu parli, hai mostrato ogni cosa

ma quei vede solo . . . una rosa.