mercoledì, agosto 17

"... e alla vostra sinistra, si'ori e si'ore, le cucine!"

"La cucina è l'anima della casa", mi dice Luciano, aggrappato al suo bicchiere e spaziando con lo sgurado sull'armata mal assortita di mobili antichi e altri solo vecchi, rabberciati e un po' sgarbati fra loro che circondano il tavolo.
Dopo anni di chiusure ermetiche gli sportelli non serrano più, lasciando intravedere non proprio casualmente quello che c'è dentro. E' come se dei fili legassero le due parti, dentro e fuori, senza tenerle compatte; però la stanza, le pile di piatti, una sofisticata confusione di stili, nell'insieme dava l'impressione di un posto dove si mangiano cose buone. Cose che, per l'appunto, escono dal cuore.
La sua cucina era esattamente come me lo ricordo.
Sul tavolo, nel bicchiere scompagnato di una qualche festa della birra, l'acqua scendendo nel vino ci lasciava dentro un disegno, e solo alla fine si capiva perchè se avesse potuto avrebbe sposato me: sua moglie dipingeva questi intarsi, questi percorsi fra il passato e il ricordo di ciascun pezzo.
L'oggi ero io: ero il ricordo. Ed ero un intarsio incompreso di sua moglie, di quelli che lui le aveva raccontato che esistevano ed ora stava seduto nella sua cucina..  Il futuro, Luciano non l'aveva più. Ma questo, quel giorno non lo sapevamo.

La cucina è il cuore della casa.
Quindi ogni visita si trasforma in un non detto, che racconta molto più della confidenza concessa prendendo un caffè.
C'è una cucina grande, "abitabile" si direbbe in gergo tecnico, il cui centro è completamente vuoto. Tutt'attorno ci senti il calore delle circostanze, dei passanti che si stringono in chiacchere mentre guardano dall'altra parte, come se aspettassero sempre qualcun'altro. E' una stanza dove senti che potresti sederti e guardar passare la vita, quella di qualcun'altro che non è mai arrivato.
Ci abita una donna che vive con suo fratello, e lo accudisce come se lui avesse ancora dieci anni, e lei trenta; non è sposata, e coltiva questi affetti ai margini, facendosene trapunte colorate.

C'è una cucina dove mancano alcuni sportelli, quelli in alto. E lì ci sono promesse di pentole vuote, e intrecci di posate, e cibi con l'aspetto di una idea scappata da uno scaffale di supermercato. Qualcosa di un negozietto etnico, o riportato da un viaggio, s'impone allo sguardo nella confusione, come se potesse in qualche modo far realizzare le intenzioni celate. Celate in basso da sportelli d'acciaio; l'armatura che riflette gelida il tavolo stretto e alto, adossato alla parete di fronte; il cui solo sgabello di legno e metallo si erge a far la guardia ad una tovaglietta dimenticata sotto appunti e giornali.
Ci abita una persona molto sola. Che ha dimenticato cha oltre allo spazio vuoto, quando si aspetta, è bene preparare un posto a sedere perchè qui, sembra non ci si possa fermare. Né ad aspettare che arrivi la vita, né ad inventarsene altre.

Ci sono cucine piccole, quadrate, organizzate, spoglie, ossessive, sfuggenti, robuste, accoglienti, creative.

C'è la cucina della casa dei miei genitori. Ci puoi trovare tutte le spezie di cui hai bisogno, a volte anche due volte; c'è il the nel suo posto nuovo, come se ci fosse da sempre, e il bricco col coperchio che ha visto formulare infusi di calore e affetto, di discorsi e discussioni, di lotte e libertà di pensiero.
C'è sempre un paio di biscotti nella scatola, e un bicchiere pulito, la frutta acciambellata nel cestino.  E' il posto dove il cuore si sente a casa, anche se non è più la casa che hai abitato, ma tanto tu, abiti coloro che ti amano.

E poi, c'è la cucina di casa mia. Quella che non ho comprato ma che ho scelto, e che ho riscelto uguale quando sembrava dovessi traslocare. Avrei cambiato forse uno sportello, quello che lascia vedere un po' troppo dentro, e forse ne avrei messo uno che si apre un po' più verso l'alto; ma sono rimasta qui, ed anche loro.
E' una cucina in cui pensi che tutto possa trovar posto, e in effetti c'è un posto per ciascuno.

E mentre la guardo da fuori, a volte mi pare sia come se s'espandesse; respirando oltre il tavolo, il rosso della poltrona, sul blu del sofà e attraverso la finestra gialla di tende del balcone, l'interno arriva a coincidere con l'esterno.


mercoledì, agosto 10

Il mio mondo di Oz

Ho letto di recente che non c'è bisogno di aspettare un viaggio, o un grande evento, per cambiare le cose. A volte in effetti, bastano delle piccole riconquistate libertà, o la volontà di riprendersi un'anima sgombra, o semplicemente accorgersi di volersi più bene, perchè qualcosa si muova.
In effetti, bisogna essere liberi, perchè il cambiamento avvenga.
Tuttavia non ci si può aspettare che accada con uno "snap", un semplice schiocco delle dita. La magia non è così semplice. Devi aver acquisito il potere di schioccare le dita, o accadono cose strane. Mi viene in tal senso in mente il film di Mary Poppins, quando i bambini mettono in ordine la stanza e il piccolo non riesce nemmeno a schioccare le dita; è in balia degli eventi, fino all'ultimo.

Oppure i libri di Terry Pratchett, quando parla delle sue streghe... che alla fin fine fanno cosa normalissime, ma le fanno in modo magico: standoci completamente dentro. Una delle frasi più belle è che "la cosa più difficile della magia, è non usarla"!
Ebbene, per farlo (non usarla) la devi padroneggiare. E per padroneggiare la magia, che è sostanzialmente l'energia delle cose, si deve conoscere

Dal momento che la conscenza inizia dalle cose semplici, dal minimo sindacale dell'esperibile, Lila ha ri-comincciato a conoscere il suo corpo. Sta indagando i difettucci visivi, cercandone i significati più eleganti e veri.  Così che forse, ad un certo punto, ci vedrà meglio. Più vicino. Più chiaro.

E poi, dato che Lila ha la tendenza ad andare altrove, dopo aver imparato a non fuggire, sta apprendendo a marcare un confine. A stabilire l'inizio e la fine del corpo, in modo che tutti quei movimenti che ci sono dentro, sappiano che le dita sono la fine del fisico.
L'inizio del viaggio, il posto da cui ritornare.
Avviene che, nel mio lavoro, si perda a volte il confine tra sé e la persona con cui si lavora per il recupero dell'armonia. Va bene, finchè non ci si confonde.
Allora ecco che, tracciando con lo smalto colorato le periferie del corpo, avviene che Lila si veda bene i piedi, adesso.

Si veda bene l'inizio e la fine delle mani. Riesca a contare fino a dieci, e poi tornare indietro, dopo che le cose sono andate.

Perchè le cose, tutte, vanno. Vanno i nostri pensieri. I nostri desideri. E "l'energia segue il pensiero", tanto che, direbbe l'amato Pratchett "la gente dovrebbe riflettere, prima di inventare mostri".
Insomma, quando l'altro giorno Lila s'è accorta che le è sfuggito un desiderio, l'ennesiama volta che stava andando via, l'ha visto con chiarezza. Ha vistoa anche che era bello. Buono.
S'è detta che forse, questo saper battere i tacchi è stato un nuovo inizio..per tanto tempo. Ed ora è iniziato.

E ci sarà una casa dove tornare. Un posto vicino dove fermarsi. Ci sarà, stando bene attenti a non rimanere prigionieri, una volta che non dovrà andare via. Anche se avrà sempre una finestra aperta.

mercoledì, agosto 3

Aprire la valigia (e correre in aereoporto - settima e ultima parte)

disegnando la mappa
Prima di lasciare Ronda l'abbiamo annusata, disegnata, socchiusa; ci siamo strette nei suoi vicolini, e siamo scese a veder il ponte dalla valle; abbiamo conosciuto il sediaio che s'è invaghito di Lo', la bella guappa che lo sovrasta di due teste grazie a cui ci regala due libri di foto della città, solo perchè c'è dentro un'istantanea di lui, che lavora. Un personaggio indelebile, anche se la promessa d'inviargli la foto con l'amata bellezza, non l'ho ancora mantenuta. Gelosia? sussurrerà qualcuno scherzosamente... no, un po' di semplice pigrizia. Ma l'importante è che mi sia posta la domanda. 


La casa delle sedie
Ronda, l'altra faccia del ponte

















A Lila comunque piace non essere di quelle persone che t'impattano così, dato che rassomiglia al sussurro leggero dei bambini nascosti sotto il tavolo a giocare (e che ogni tanto lanciano un gridolino allegro..ma un po' tra sé), e che da adulti provano a stare dietro le quinte,  'chè non hanno il senso del palcoscenico, anche se cercano di riempire lo spazio tra sé e il pubblico con torrenti di parole, alla fine arrossiscono e balbettano... e arrossate e balbettanti e con gli occhi brillanti eravamo tutte e tre, a dire il vero, quando siamo salite dalla Mina, ieri; averci i soldi avremmo restaurato la casa del Roi Moro quel giorno stesso.
Averci gli attrezzi, avremmo intonacato e stuccato, dipinto travi e pareti e "stelle sul soffitto" perchè ci ha stregate, la casa, e avremmo voluto accomodarla come per magia.  Questo è piaciuto talmente, alla signora Custode, che ci ha raccomandato il Bar degli spagnoli, lì a Ronda. Dove va lei.

Sierra de Grazalema
Per ciò, prima di partire pranziamo con due lire (costava di più la bibita che il cibo!) e poi eccoci ancora sulla via. Lentamente come ciascun ritorno che si rispetti,  ci inerpichiamo per la strettissima strada che sale attraverso la Sierra de Grazalema; mangiamo more di gelso contemplando gli speroni aguzzi che dettagliano il confine tra i prati e i boschi, ricoprono con le ombre ampie i tetti rossi di Grazalema, e rotolano massi e acqua verso il fondo valle, quando qualche tempesta s'impiglia sulle cime.
Grazalema, il paese





La tempesta, o almeno la sua promessa, la troviamo dall'altro lato, intorno ad Arcos dela Frontera e poi distesa verso Cadice. Si sta facendo tardi, così alla fine torniamo direttamente a Siviglia, con le tasche colme di allegri dettagli sui campi e sulle nuvole, sugli alberi e sui vortici più o meno fisici.

Entrare in città è meno facile del previsto; dopo vari errori, quando ci troviamo su un immenso ponte autostradale dirette verso Altrove, stiamo quasi per soggiacere al panico, quando vedo un promettente cartello d'uscita con scritto "los Remedios".
Evviva, siamo a posto! trillo allegra, poichè comunque ero certa che un rimedio si sarebbe trovato, ma che fosse addirittura scritto così a chiare lettere...
ma poi, dicono le mie passeggere, dove andiamo?
C'è infatti una rotonda...ma sulla prima via che ne parte c'è scritto "Escludida"!


Parco Maria Luisa, Siviglia
Visto, dico io, siamo a posto. Di là no, quindi andiamo dritto.
Le indicazioni, dopo, si fanno meno chiare;  riusciamo comunque ad arrivare nei dintorni di Plaza de Espagna e fare un giro al Parco Maria Luisa, disseminato di graziosi e sorprendenti palazzetti Liberty, costruiti in occasione dell esposizione Iberoamericana del 1929.
Parco Maria Luisa, particolari dei vasi
un posto, a cena
Sospetto che fosse ancora una volta la fame a farmeli comparare con un servizio da the, ma mancavano i biscotti!, così ce ne siamo andate all'ultimo hostal, il meno bello, senz'altro, che comunque è pratico per la collocazione, molto centrale; l'ultima cena andalusa la sbagliamo, entrando stanche e malmostose per l'imminente partenza in un locale sito in un bellissimo patio, ma davvero di poche pretese. L'omino che ci serve si muove asincrono, come se fosse fatto di parti di persona diversa assemblate malamente; magari è frutto della fantasia di uno scrittore, che gli fa asssumere i connotati dei suoi clienti, e domani avrà i capelli neri di Lo', gli occhi verdi di Madama Dorè, le ossa aguzze e cave di Lila.




Casa de Pilatos
L'ultimo giorno arriva, come l'ultima mano di carte. Ce ne resta una, prima di fare i conti, e ce la giochiamo attraversando Siviglia alla ricerca della "Casa de Pilatos"; uno di quei posti che spesso neppure i sivigliani hanno visto... un po' come i romani con il Colosseo.

Casa de Pilatos, Siviglia
E, come il Colosseo per il romano D.O.C. la prima volta che ci mette piede,  la Casa ci lascia a bocca aperta.
Tra rinascimento classico e Mudejar, ancora una volta spazi e pieni si allacciano in una danza romantica e lenta,  al cui passo ci adeguiamo scivolando tra i cortili e le sale del piano terra, fino a riempirci gli ultimi recessi delle borse di sorpresa e incanto...
E trovarci quindi, dopo un leggero shopping per trattenere ancora un poco i piedi in questa terra (sempre alla ricerca di scarpe, in pratica :) ), pronte a tornare.









Batto i tacchi. Uno, due, tre.

                                       "non c'è nessun posto come casa mia" disse Doroty...

Roma, il Colosseo