mercoledì, agosto 19
un pezzo d'aurora (non ancora giorno)
Le persone, anche le più incredibili e forti, quelle che per tutta la vita avete guardato con un misto di timore e rispetto perché potevano fare ed avere tutto quello che volevano, bene, perfino loro talvolta crollano. (figuriamoci io!)
Il tonfo naturalmente è tanto più forte, quanto più in alto credono di essere arrivate; e una sorta di vertigine, le porta a credere che l’altezza dalla quale cadono sia infinitamente più grande che nella realtà.
Esattamente questo successe, quando alla tenera età di ventinove anni mi voltai, solo un attimo, giuro, a guardare quello che avevo fatto fino ad allora. La molla fu probabilmente l’ultimo incidente ‘amoroso’, quella caduta di stile alla quale mi aveva portato l’insistente, recente, convinzione che mi fosse necessario un compagno per procedere nelle avversità della vita.
Il risultato di quel piccolo movimento a ritroso fu catastrofico, non perché fossi in alcun modo pentita di quanto era accaduto, quanto perché improvvisamente mi apparve tutta una sequenza di anni all'apparenza vuoti, il cui bilancio si fece agli occhi stanchi, che anelavano comprensione ed abbracci, per un attimo totalmente negativo.
Bastò quell’attimo perché accadesse l’irreparrabile.
E’ stato come quando arrivi di corsa in cima ad una salita, pensando di trovare un pianoro sul quale gettarti a riposare, e scopri che la strada finisce in un precipizio… Ecco, a quel punto, di fronte al precipizio, metà di me cadde in fondo, e l’altra metà rimase immobile a guardare, piangendo la scomparsa della migliore compagna che avessi avuto fino a quel momento.
Già, perché io sono nata doppia, ed ho sempre cantato per quella metà del cielo che intravedevo a malapena, e che ho amato con tutto il mio cuore, fino a quel giorno.
Perché quel giorno arriva sempre, nella vita di tutti, perfino delle persone speciali. E "quel giorno”, per me, fu quando smisi di sentire. Si, sentire.
Ero talmente avvezza ormai, a farlo, che la perdita di tale capacità fu un lutto maggiore della perdita di un amico, cosa alla quale sono abituata. Gli amici, in genere, si perdono quando ti danno una coltellata nella schiena, o quando dispaiono lentamente dalla tua vita, perché hanno preso un’altra direzione. Tu non vuoi seguirli, o sei già andato altrove, e così ad un tratto ti trovi a parlare con la tua sagoma allo specchio, vagamente confuso perché la osservi da tanto tempo che non conosci più il volto che hai dinnanzi.
L'amicizia rifiorisce altrove ed altrimenti, ma a ben pensar l’unico che veramente ti sarà sempre incollato addosso, finché morte non vi separi, sei tu…
beh, allora guardare un estraneo allo specchio non fa molto piacere.
Questo accadde; arrivai in cima allla salita, ansante, e metà di me, quella che sentiva, cadde nel precipizio. Da allora sono stata abbastanza immobile, e per muovermi mi scopro a ripercorrere brandelli della mia vita, quelli che ricordo; per rammentare come sono arrivata a tanto.
Naturalmente quando tutto ebbe inizio, avevo appena scelto di venire qui, e di seguire l’arduo percorso che la forma umana impone. Avevo scelto la mia famiglia, la mia vita tutta, forse, o almeno le salite più grandi da affrontare. Non ci credete?
eppure è così. come un perfetto tour organizer mi ero appuntata tutto, proponendomi di visitare ‘il tradimento del tuo migliore amico', l’impressione di essere abbandonato, il dolore di non poter "risolvere i problemi” e altre ancora; proprio come adesso studio su internet l’itinerario del viaggio a Londra...
La differenza comunque, è la coscienza con cui si intraprende il viaggio. Ed allora ero cosciente. L’unica cosa che ricordo adesso, e che forse mi sostiene dato che altra fede non ho, è che il lungo viaggio si proponeva la scoperta di me stessa. E garantisco che non è poco, benché naturalmente io non sia l’unica partita con tale scopo.
è più semplice scoprire Londra, Parigi, il Marocco selvaggio...
Alla luce dei ricordi di cui mi faccio bagaglio, apprestandomi a scaricarli con questo scritto, tra gli obbiettivi prefissi all’inizio del viaggio vi era la conquista dell’indipendenza.
Fedele al motto ‘chi fa da se…’ una volta smarrita la coscienza del Tutto, ottenebrata dalle prime elementari istruzioni umane, mi lanciavo nell’esplorazone dei supermercati lasciandomi alle spalle mia madre, tranquillo osservatore di questo piccolo essere misterioso, e valicando faraglioni di scaffali.
Allora le immense piane che si stendevano dal reparto surgelati al banco del pane, invero più limitati degli ipermercati moderni, ai miei occhi infantili finivano col perdere interesse, fino a trasformarsi in un labirinto senza uscita, che immancabilmente mi scatenava un ondata di panico… e lacrime!
Come per tutte le tappe importanti della mia vita, leggasi soprattutto la mia nascita, non mi resta che chinare il capo e ringraziare colei che mi tirava immancabilmente fuori da quelle giungle spaventose per riporrmi nella tranquillità della sua salvifica presenza: mia madre.
Mio padre non l’ho dimenticato, certo, ed occorre rendergli onore, ancorché il suo intervento si esplicava, pur sempre con trionfali risultati, in tutt’altra maniera.
Tuttavia va detto che l’osservazione più stretta delle mie prime mosse nel mondo fu certo quella di mia madre, dato mio padre cominciò la sua carriera di assistente di volo proprio quando nacqui.
Così da sempre, sono stata abituata ad un papà dieci-giorni-al-mese ma non necessariamente il sabato e domenica (come quelli che hanno due giorni di riposo settimanali). Era un papà che c’era (presentissimo, sempre) e poi non c’era per niente, per qualche giorno. Nessuna attesa alle sei di tutte le sere, per vederlo e dargli il bacio della buona notte, quando varca il portone, come i pargoli di casa Bangs (Mary Poppins). Ma un papà che arriva ad ora di pranzo, riparte alle quattro del mattino, torna a metà pomeriggio.
Altre volte era a casa a vegliare sul telefono, in attesa della chiamata del fantomatico Ufficio Turni, che nelle mie fantasie di allora era una grande stanza piena di macchine, in cui qualche simpatico giovanotto, tutti accuratamente senza volto, sorteggiava da un bussolotto il personale di ‘riserva’.
Quando siamo stati un po’ più grandi, ci è stato permesso di partecipare alle staffette telefoniche per chiamare il suddetto ufficio, perché le cose non si svolgevano proprio come immaginavo, bensì c’era la possibilità, in un certo senso, di offrirsi volontari per lavorare.
Ora che la logica schiacciante del bisogno di denaro mi sospinge per ore fuori casa, pur di raggiungere la fine del mese, credo di capire un poco di più le motivazioni che lo spingevano a tanto. Eppure confesso che spesso desideravo che mio padre rimanesse a casa con noi, invece di non essere là per altri tre o quattro giorni.
Tutto questo, naturalmente, ha contribuito nel tempo a fare di lui l’eroe senza macchia, quello che, se ci fosse stato, mi avrebbe salvato. Non so nemmeno immaginare quante volte ho voltato le spalle a mia madre, al grido di “voglio il mio papà”, assolutamente impossibilitata ad immaginare che, se ci fosse stato, avrebbe anche potuto concordare con lei.
Oneri ed onori di chi resta, comunque. Mia madre, lei, c’era sempre. Quando mi facevo male, quando ero felice, e purtroppo per lei, più tardi, anche quando ero io a colpire brutalmente con la cecità del mio punto di vista umano.
Si può presumere, a questo punto, che queste siano le premesse della persona che sono diventata.
La tranquillità che mi ha donato la coscienza mi dice che questa è solo un’altra fase transitoria, uscita dalla quale, come tutte le volte che è già successo, non ricorderò niente. Forse mi resterà solo, nei momenti di noia o di bilancio, un vago ricordo dell’aver sofferto. Così come accade per le fasi di luce…
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1 commento:
semplicemente "meravigliosa". Grazie Lila
Maurizio
(pochi sono in grado di esternare la propria vita in attimi di semplice felicita)
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