giovedì, aprile 30

La velaia di T. (2)

C'era una volta il tempo...
che ci ha viste solcare il fiume di pietre incastrato fra le case di tufo di Orvieto. E crescere, riluttanti poeti che si nascondevano dentro felpe immense, e una indecisa autonomia di pensiero: per cui eravamo sempre affogate in noi stesse e un po' tagliate fuori; anche quando si pensava d'aver raggiunto un punto di contatto con gli indigeni del paesone. Non siamo mai state di quel posto, ma eravamo ben di noi stesse, ed eravamo una per l'altra. Nei litigi come nelle lunghe giornate passate ad inventare storie e curarci il futuro. Senza mai sapere.
A diciotto anni, non sai mai niente, ed hai solo il tempo di metterti su una giacca e correre a vedere cosa ti ha riservato la vita. Almeno a me pare che fosse così.

Le strade però ad un certo momento portano altrove, e dopo aver studiato le pietre dello stesso Corso insieme, tante volte, una volta sola è bastata, ed abbiamo percorso altre strade.
Come se io fossi andata a S. Giovenale, e tu a piazza Cahen. I due poli opposti.



C'è stato un tempo, in cui ci siamo rincorse nel sogno, ed abbiamo salito le due discese opposte, ansimato, girato l'angolo e pensato che il caso bastasse, per rivedersi; però non era il tempo. Quello.

Ieri, che conta già qualche pioggia e qualche notte, ed ha aspettato vari anni e quaranta giorni per essere ieri, alla fine è successo.
O all'inizio.

E se l'ultimo mio sogno diceva che ci saremmo incontrate in un porto, non sbagliava poi di troppo. La città è di mare: una lingua tesa fra due mari anzi, che non parla dell'uno dell'altro; ma solo dello scirocco.
Il porto è d'aria, come da copione, considerato che entrambe siamo di quell'elemento essenzialmente tratte. Ed attratte.

Il tempo è venuto, alla fine (o all'inizio) di riabbracciarsi.
Come nella scena madre che occorre aver visto almeno una volta, e vissuto possibilmente tante!, un abbraccio ha raccontato più di ogni possibile articolazione sonora tutto quello che non c'è bisogno di dire. E molto più in fretta.

Il tempo è venuto lentamente, e passato ovviamente, con la sua logica paradossale, rapidissimo; ma so esattamente tutto, di quelle ore trascorse a ricoprirci i tratti del viso, a rivedere i capelli lasciati liberi dagli inganni che fuorviano le ipotesi sull'età, a rimettere insieme i pezzi sparsi nel tempo in cui non ci siamo raccontate. A raccontarci a voce, tutto quello che si cela agli occhi estranei nel silenzio delle rughe.
E poi ho preso la tua storia nei disegni, dal tuo gorgheggio accennato, sui viali che conducono dalle mura di tramontana al porto. Sempre mare. A nord, a sud. E anche dentro.
Sempre tu, anche oggi. Anche diversa.

E m'incanto a vedere che niente è cambiato, benché sia tutto diverso... e tutto cambiato.
Siamo io e te, come se ci fossimo lasciate ieri, ed allo stesso tempo non ci conosciamo più. Chiediamo permesso, entriamo con delicatezza, per i primi momenti, appigliandoci a qualche ricordo comune, per vedere se sonno gli stessi; poi scaliamo le distanze con avidità, e con la sicurezza di una vecchia confidenza, della fiducia accordatami dalla gatta. E tra una lirica e un infuso di zenzero e limone, che odora di fresco, si apre un nuovo orizzonte.

Non dico che ci andremo per mano, perché non siamo mai state di quelle che si tengono la mano come i fidanzatini; loro fanno tenerezza, a noi forse sembrava di essere fragili (o solo un po' assurde); più pratiche, ci tenevamo con altri fili, una con l'altra.

Gli stessi, ma intrecciati ai mille che stanno nella rete fra ieri e oggi, ora, più che ritendersi tendono a rendersi un po' più visibili, che nel tempo passato senza scorgerci.
In questo tempo accaduto per tempo, con i tempi giusti, e fuori dal tempo.

... Inizio.

1 commento:

Federico Distefano ha detto...

E' vero.
In un abbraccio sentito, spesso, corrono mille parole non dette.
Ciao e buonanotte!
:)