sabato, ottobre 25

Umor nero

Non humor, ma umor nero, anzi rumore.
Un rombo sordo ha percosso le mura della casa, quasi da far tremare le gocce d'acqua che percorrono le piastrelle, rimbalzate sul muro dal corpo, mentre faccio la doccia.
A guardar fuori sembra che, per scherzo, qualcuno abbia sostituito il palazzo di fronte con una immensa tenda d'acqua. Non c'è alcuna soluzione di continuità, tra una goccia e l'altra. Sembra che la stessa realtà molecolare, si sia compattata, riducendo la propria massa in quel filo continuo che tremola innanzi agli occhi.
E mi rende la ragione di un altro filo, quello sottile del dolore. Sordo come il rumore del tuono, da un paio di giorni mi avvisava che qualcosa stava muovendosi, lassù nelle alte sfere.
Mi avvisava di non cantare vittoria, non ancora, che cinque mesi sono pochi per una cicatrice come questa. A vederla, quella che sta fuori, piccola, rossa , secca e minuscola linea che costeggia il margine frastagliato della cresta ossea della colonna, non si direbbe.
Non si direbbe che dentro possa esserci qualcos'altro. Qualcosa che si è compresso, che si è rotto per il peso e la tensione che, insopportabili e incurati, si sono sfogati al primo evento utile.
Di fronte ad una frattura, ti senti immediatamente impotente. Nel senso che la percezione di onnipotenza di un corpo allenato, di una mente abbastanza vigile e veloce, si sfalda e si comprime. Rimane un misero resto della perfezione che c'era: un cilindretto schiacciato e deforme, al posto di un rocchetto elevato al cielo, che dipanava gioioso il filo della esperienza (parlando di psicosomatica) ad esso collegato.
Bisogna fare i conti, con questa cosa.

"Signora, non si deve muovere. Lei ha una frattura vertebrale".
Certo, il crack lo avevo sentito. Ma dalla moto sono caduta tante volte, senza danni, che semplicemente non avevo contemplato il fatto che potessi farmi male. Ero a terra, su quel piano d'asfalto da cui si è rialzata (anzi rotolata in barella) un'altra me, nel momento in cui sono rinata da sola per una spinta in dentro, e non in fuori. Ero a terra ed ho pensato, sì, "si è rotto qualcosa". Ma pensavo che fosse solo la mia forza della giornata. "ecco, ho una buona scusa per non ri-uscire", questo, ho pensato.
Poi la gente. Questa pioggia mi da la stessa sensazione di quei visi: nel ricordo sono solo una linea incessata di fronte agli occhi.
Ininterrotto da mesi, pur se a volte mascherato dall'iperattività congenita, mi logora, questo filo. Immagino che qualcuno sia lì, alla metà della mia schiena, e lo stia muovendo avanti e dietro. Non potrebbe, non dovrebbe, dolere ancora così.
Anche se il dolore è cambiato. Ora s'è cupo, e più circoscritto.
Lì, allora, era una mano che serrava e incastrava, come se tutto il corpo dovesse, per risolverlo, implodere; raccogliersi in quel punto che non sapevo dove fosse. Che si chiudeva in . Grattando.
Lo sento ancora, il grattare.
Al lato destro, tra fegato e polmone, come qualcosa che fatica a scorrere,;e talvolta mi socchiude un poco il respiro. Socchiude, riduce, sgrana.
Lì, allora, nemmeno ci riuscivo bene, a respirare. Inspirare profondamente, per riprendersi la vita sembrava impossibile. E avevo paura di espirare. Avevo paura, lì si, che espirando mi sarebbe scivolata via la vita e il movimento che invece si sentivano pulsare. Perché le gambe le muovevo. E la schiena batteva. E il sangue, batteva sulla schiena.
"Come, non devo muovermi? sulla barella mi ci sono messa da sola", rispondo guardinga al dottore- Poi mi sfugge altro fiato: "ma dove si è fratturata?"
"La seconda vertebra lombare".
Cristo.
"Si, ma mi dica dove si è fratturata: il corpo, un'apofisi, l'arco.."
Il terrorismo da pronto soccorso, dopo che per due ore mi avevano fatto spostare, girare svestire per fare radiografie e Tac, mi ha conservato la lucidità dell'autodiagnosi: mi muovo, tanto grave non sarà.
Il corpo, però, si era rotto comunque. Ed ho esalato, in quel momento, il respiro trattenuto. Ho lasciato che rantolasse, che strisciasse fuori, per rimettersi nello spazio esterno, che gli avevo negato, tra me e quel medico che mi ha chiamato "signora", quando fino a poco prima ero la ragazzina dello scooter.
Ho pianto, dopo. Dopo, perché davanti a loro avevo bisogno di fingere che andasse tutto bene. Lo sapevamo, loro ed io, ma la mente, no. Ha bisogno di mentire fino all'ultimo. Quando ti racconta per distrarti, tutta la tua vita. Che sembra proprio di riviverla tutta, e se ci si pensa, a volte, viene da chiedersi se questo che sto vivendo è la vita, o la vita che ricordo.
Questa, oggi, è la vita che ricordo. Però io sono viva.

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